Riflessioni (incomplete) sulle pratiche di libertà

Una piccola premessa

Partiamo da un presupposto: vogliamo essere felici.

Crediamo che vivere sperando in un lontano futuro in cui il mondo sarà finalmente, e quasi magicamente, rivoluzionato sia limitante.

È comunque a questa dimensione utopica che tendiamo ma non siamo disposti ad attendere spasmodicamente tempi migliori. Troviamo necessario poter assaggiare la felicità, iniziare a concretizzare qui e ora un mondo diverso.

Non pensiamo che una rivoluzione passi dalla mera presa del potere.

Crediamo che la creazione di comunità di lotta sia la cosa che più si avvicina alla forma di vita che auspichiamo, alla scomparsa di solitudine e atomizzazione.

Per questo partiamo, nella stesura di questo testo, da esperienze vissute all’interno di una specifica comune. Ma vorremmo fare un discorso che sia estendibile a tutte le nostre comuni dagli squat alle zad.

Sperimentazione

Affrontare le contraddizioni che vivono nei nostri spazi significa analizzarle e provare a scioglierle e , in potenza, rendere attuale, possibile o quantomeno immaginabile l’assenza di meccanismi di dominio all’interno dei rapporti umani.

La sperimentazione nella comune passa dalla decostruzione personale di ognuno nel tentativo di spogliarsi dei dispositivi della società.

Un tentativo difficile in cui talvolta finiamo per perderci, dedicandoci stacanovisticamene alla lotta, uccidendo l’individualità quando sono proprio le nostre differenze a renderci forti. A fare di noi una comune è il porre i desideri e i bisogni dei nostri simili sullo stesso piano dei nostri.

La comunità vive di rapporti, o almeno ci prova. L’amicizia e l’amore, la condivisione di momenti e stiuazioni ci caratterizzano.

Ogni istante va sullo stesso piano, nessuno dovrebbe essere sottovalutato: cucinare e mangiare assieme, andare a fare un giro di scritte, scrivere un testo collettivamente, vivere insieme momenti di conflitto, elaborare un lutto o passare semplicemente il pomeriggio insieme sono forme e declinazioni tramite cui la comunità cresce e rafforza i legami e la fiducia reciproca creando un senso collettivo di affetto ed intimità.

Quando ci concediamo alla collettività viviamo con il terrore di uscire da essa. Temiamo il tradimento. Quando qualcuno si distacca, quando vediamo il limite nell’inconciliabilità di questa forma di vita con la costruzione di una famiglia, con un lavoro full-time o con l’avanzare della “vita adulta” ci sentiamo isolati perché abbiamo scoperto cosa significa non essere più soli.

La comune permette l’elaborazione di forme di vita che siano allo stesso tempo forme di lotta. E vive costantemente nel tentativo di trovare l’equilibrio tra queste.

A parte tutto qui viviamo bene

Viviamo immersi nel capitalismo. Ci siamo nati e cresciuti e non possiamo pensare che esso non ci scalfisca. Barricare una porta non significa lasciar fuori ogni schifo di questo mondo. Dobbiamo comprendere che il percorso che vogliamo affrontare è lento e tortuoso. Passa dal politico, dalla quotidianità, dal continuo riassestamento di equilibri, relazioni e legami che vanno di pari passo al mutamento delle necessità e dei desideri della comune.

Nei momenti di difficoltà dobbiamo ricordare però che la differenza tra il “mondo esterno” e i nostri “micromondi” è la tensione a cambiare. A cambiare il mondo o le relazioni. A cambiare la nostra stessa vita, o almeno a provarci. Per quanto ci sembra di fallire, forse i nostri fallimenti ci avvicinano a riuscire meglio la prossima volta.

E il farlo insieme è ciò che ci avvicina a stare comunque meglio, a vivere bene. Fosse anche solo perché possiamo andare a dormire sonni tranquilli sapendo di averci provato per l’ennesimo giorno.

Vivere in conflitto e vivere il conflitto

La nostra incisività sul mondo dipende dalla nostra capacità di essere all’attacco.

Se all’azione repressiva totale che subiamo rispondiamo con la chiusura e con l’autodifesa, ovvero cercando meramente di rendere possibile la sopravvivenza della comunità abbiamo già perso.

Che senso ha essere sempre sotto attacco e abitare permanentemente in conflitto senza viverselo realmente o senza esserne partecipi?

Anche per la mancanza dell’azione repressiva statale, e conseguentemente della risposta militante, forme di vita che si basano su delle concessioni di qualcosa da parte del potere non sono incisive sulla realtà non solo perché recuperate parziamente dallo stato, ma perché implicano la perdita di combattività e non permettono di rendere estendibili le forme di vita. Rivendichiamoci la nostra illegalità e vinciamo grazie ai rapporti di forza e non perché qualcuno ci ha concesso di vivere.